Il grande muro

01 APRILE 2021

Un’inchiesta su come l’Italia ha tentato di fermare l’immigrazione dall’Africa – usando anche fondi europei – e su quanto ha speso per farlo

Se dovessimo calcolare quanto l’Italia ha investito per bloccare i flussi migratori dall’Africa ci troveremmo di fronte a una cifra enorme. Quella cifra, bisogna ricordarlo, è stata investita in un’idea di frontiera che non ha fermato i flussi, ma li ha resi sempre più pericolosi, ha arricchito i trafficanti, non ha portato alcuna soluzione legale e nessuna alternativa a tutte le persone che, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità, migrano verso una vita migliore.

Una cifra enorme che poteva essere investita in accoglienza, corridoi umanitari, procedure legali e organizzate, sicure, per i migranti e per le comunità di arrivo e di partenza.

The Big Wall è un longform multimediale realizzato da Giacomo Zandonini (ricerca, scrittura e coordinamento), Remo Romano (design e sviluppo del sito, infografiche) e Bojan Milinkovic (Illustrazioni e motion design), prodotto da ActionAid, che ha lavorato per calcolare questo costo.

Diviso in sei capitoli, il longform multimediale che alterna testi, documenti, infografiche, foto, mappe e un video, The Big Wall parte da un focus sulla Libia e arriva alle alternative, passando per il ruolo internazionale dell’Italia sul tema, il caso Niger, e dagli accordi con altri stati africani e dalle procedure di rimpatrio.

I numeri sono importanti: “Ci sono satelliti, droni, navi, progetti di cooperazione, posti di polizia, voli di rimpatrio, centri di formazione. Sono mattoni di un muro invisibile ma tangibile e spesso violento. Innalzato dal 2015 in poi, grazie ad oltre un miliardo di euro di denaro pubblico. Con un unico obiettivo: azzerare quei movimenti via mare, dal Nord Africa all’Italia, che nel 2015 avevano fatto gridare alla ‘crisi dei rifugiati’. Vi raccontiamo le fondamenta (fragili) e gli impatti (drammatici) di questo progetto. Che va modificato, urgentemente”, racconta The Big Wall.

Un esempio: solo per la Libia, sono stati stanziati 310 milioni di euro tra la fine del 2016 e novembre 2020, dei quali erogati 253 milioni di euro. Con quali risultati? Ancora oggi imbarcazioni di fortuna mettono a rischio la vita di migliaia di persone nel Mediterraneo, per fuggire da un paese dove le condizioni di detenzione sono disumane, oggetto del guadagno di milizie armate e trafficanti.

Cosa si poteva fare con quei soldi? E cosa si poteva fare con tutti gli altri soldi spesi per edificare The Big Wall? Cosa si poteva costruire in Africa, con quei soldi, per dare alle persone delle alternative?


“Per il periodo dal gennaio 2015 al novembre 2020, abbiamo rintracciato 317 linee di finanziamento gestite dall’Italia con fondi propri e parzialmente co-finanziate dall’Unione Europea. Un totale di 1,337 miliardi di euro, spesi in cinque anni e destinati ad otto capitoli di spesa differenti in cui la Libia è al primo posto, ma non è da sola.” Una cifra che è anche difficile da scrivere, ma che deve far riflettere.

Il longform non riporta solo i numeri della accurata ricerca di Giacomo Zandonini, ma anche testimonianze di attivisti e ricercatori, oltre a ricostruire le dinamiche e le relazioni con autorità politiche discutibili, che dall’impegno – e dal finanziamento – a fermare i migranti hanno ottenuto risultati politici personali a danno dei processi democratici delle loro comunità.

Tutto il longform è arricchito da documenti e date, che permettono di ricostruire questa lunga – e costosa – storia italiana ed europea. Che spesso finisce per ottenere l’effetto opposto: “In nome della lotta ai trafficanti, slogan ripetuto da leader europei ed africani e capitolo di spesa centrale dell’intervento italiano tra Africa e Mediterraneo –142 milioni di euro in cinque anni – si rischia di avere l’effetto opposto. Perché il pane dei trafficanti, oltre al desiderio o alla necessità di viaggiare, sono le frontiere chiuse, i visti negati”, denuncia The Big Wall.

Una politica che mostra i suoi limiti etici, economici e politici. “Per decenni, il Giappone ha avuto politiche migratorie molto restrittive, non ha ammesso nessuno”, spiega nel longform Helen Dempster, economista del Center for Global Development, “ma negli ultimi anni è successa una cosa: si è reso conto che, con il suo tasso d’invecchiamento della popolazione, presto non avrà più persone per svolgere lavori fondamentali, pagare le tasse e quindi finanziare le pensioni”. E così, dall’aprile 2019, il paese asiatico, ha iniziato ad accettare domande di visto per lavoro, sperando di attirare 500,000 lavoratori stranieri.”

Questa considerazione, con le raccomandazioni di ActionAid, chiudono un ottimo lavoro che dovrebbe essere non un punto di arrivo, ma di partenza, per rilanciare a fondo il dibattito su una politica verso le migrazioni che non è solo fallimentare, ma anche letale.

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di Christian Elia