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Accoglienza

L’accoglienza è un’apertura: ciò che così viene raccolto o ricevuto viene fatto entrare – in una casa, in un gruppo, in sé stessi. Accogliere vuol dire mettersi in gioco, e in questo esprime una sfumatura ulteriore rispetto all’ospitalità che può essere anche solo buona educazione. Chi accoglie condivide qualcosa di proprio, si offre, si spalanca verso l’altro diventando un tutt’uno con lui. Allo stesso modo, chi è accolto, si offre, si racconta, si mette in discussione. L’accoglienza, perché sia vera, ha bisogno di persone che si mettono in gioco. Accogliere significa dare un nome, ascoltare e raccontare una storia. Accogliere deriva da ‘mettere assieme’, ‘collegare’: bisogna abbandonare l’idea dell’accoglienza come gesto di bontà, per arrivare a un’idea di accoglienza che sia uno scambio alla pari, tra pari, che si arricchiscono a vicenda.

Migrazioni

A livello internazionale non esiste una definizione universalmente condivisa per “migrante”, ma le raccomandazioni delle Nazioni Unite suggeriscono almeno un anno come criterio per qualificare lo spostamento in un Paese diverso da quello di residenza abituale come “migrazione”.
Le persone che viaggiano per periodi più brevi non saranno considerate migranti, salvo i lavoratori stagionali. Il termine “migrante” in genere è legato alla decisione di migrare quando viene presa liberamente da una persona interessata per ragioni di “convenienza personale” e senza l’intervento di un fattore determinante esterno, come accade, invece, per i rifugiati.
Queste definizioni, corrette in principio, oggi vanno superate per comprendere – con gli stessi diritti – coloro che studiano all’estero come quelli che cercano lavoro, chi ha opportunità di fare affari in altri paesi come quelli che si spostano dal proprio paese per cambiare la propria vita. Quello che serve è un processo globale di governance delle migrazioni, non definire chi è migrante e chi no, chi può spostarsi e chi non può farlo. Più guarderemo alle migrazioni come un naturale processo umano, mosso dalle più svariate motivazioni, più saremo vicini a una gestione umana, corretta e legale dei flussi migratori.

Complessità

Oggi, più che mai, c’è bisogno di complessità. Per troppo tempo si è tentato di ‘semplificare’, con l’obiettivo di rendere comprensibili fenomeni complessi. Ma il risultato ottenuto è stato opposto a quello desiderato: semplificare troppo disumanizza, restringe i diritti, non aumenta l’empatia.
C’è bisogno di una vera e propria ‘educazione alla complessità’, che riguarda sia la vita quotidiana, dove integrazione non significa assimilazione, sia a livello globale. Non c’è più modo di fare distinzioni tra le cause che concorrono alle migrazioni globali: i conflitti armati e le persecuzioni sono strettamente connessi al cambiamento climatico e alle disuguaglianze economiche, passando per le leggi di mercato e la corruzione delle istituzioni. Educare alla complessità significa lavorare con chiarezza al fatto che non esistono soluzioni facili per problemi complessi. Un approccio complesso alla realtà contemporanea è l’unica soluzione per il destino dell’umanità.

Solidarietà

Il termine solidarietà viene da solidale, di origine latina, come “obbligo”. Essere solidale quindi vuol dire essere obbligato, essere legato a qualcuno o qualcosa in modo solido. La solidarietà pertanto è la condizione di chi è solidale con gli altri, ovvero di chi è legato in maniera solida con qualcuno. Il significato di solidarietà è mutato culturalmente, mantenendo un alto valore della parola in sé, ma tirandolo in causa solo in seguito ad episodi molto gravi e calamità in genere. Si parla infatti di solidarietà solo di fronte a una sciagura. Questo, però, rischia di creare una distanza tra il senso della solidarietà e la realtà, avvicinandola troppo alla ‘carità’.
Bisogna superare la superficialità di un’idea di solidarietà solo come aiuto per chi è più sfortunato. La solidarietà deve tornare a essere un legame. La solidarietà non deve limitarsi a fare qualcosa, ma piuttosto nel vivere in un certo modo, ovvero nel sentire che la vita dell’altro è importante, accompagnando l’altro nelle sue scelte più profonde. La solidarietà passa attraverso le relazioni autentiche. Tanto più la solidarietà sarà empatica, tanto più sarà chiaro che in differenti periodi della storia e dell’economia chi è in difficoltà oggi potrebbe aiutare domani.

Memoria

Riprodurre nella mente l’esperienza passata (immagini, sensazioni o nozioni), riconoscerla, localizzarla nello spazio e nel tempo. Questo è il processo che, comunemente, si associa alla memoria. Un apprendimento e una ripetizione fedele, non necessariamente legati a una completa o corretta comprensione di un fenomeno. Ecco che la memoria rischia di diventare una scatola vuota, a maggior ragione quando certi eventi si ‘normalizzano’, e finiscono per sembrare tutti uguali. Un naufragio di migliaia di persone o uno ‘sbarco’ diventano momenti, sempre uguali, ai quali si reagisce con sempre meno attenzione. La memoria, invece, deve essere una materia viva, che si nutre ogni giorno di insegnamenti che devono portare a non ripetere gli stessi errori, a non riprodurre o a ignorare le cause che hanno generato un fenomeno. Serve una memoria che non sia un monumento, ma una mappa.

Realtà

Per molto tempo si è immaginato che tenere le discussioni sulle migrazioni ancorate ai ‘numeri’ reali avrebbe stemperato i toni più feroci, ma non ha funzionato. Nonostante le evidenze, ad esempio su quali siano i paesi che ospitano più rifugiati (nessuno di questi è in Europa), oppure su come non esista alcuna ‘invasione’ di migranti, non si è riusciti a contrastare una narrazione tossica e molto spesso violenta. Questo processo, proprio a causa dei ‘numeri’, ha contribuito alla ‘spersonalizzazione’ dei migranti, a parlarne solo come ‘massa’, senza volto e senza nome.
Bisogna tornare a definire la realtà attorno alle persone che la vivono, con nomi e cognomi, diritti e sogni, perché nessuna politica migratoria possa esistere se non si abbraccia una volta per tutta il concetto che ogni vita vale e che tutte le questioni politico – amministrative vengono dopo il salvataggio di chi rischia la propria vita.

Confine

La definizione dei confini di Stato, che ha generato in Europa e non solo una storia di conflitti, armati o culturali, è mutata – negli anni – verso una definizione più ampia e più feroce allo stesso tempo. I confini sono diventati, per milioni di persone, un ‘destino della frontiera’: nascere da una parte o dall’altra di un confine cambia radicalmente le proprie possibilità di avere una vita oppure un’altra. Oggi, più che mai, serve una nuova cultura del confine, che superi la dimensione politico – amministrativa, per arrivare a una definizione etica e umana del concetto di confine. Proprio perché sono i confini che devono diventare il soggetto del racconto, e non più l’oggetto. Un soggetto che può raccontare, dalla periferia al centro, come esista una quotidianità del ‘confine’, che è sempre esistita e sempre esisterà, che ricorda a tutti noi come sia necessario governare – in modo etico e umano – un processo che sarà sempre e comunque irreversibile.

Sicurezza

Gli eventi internazionali degli ultimi venti anni hanno mutato a fondo il senso della parola ‘sicurezza’. Per molto tempo, con ‘sicurezza’ si intendeva il pieno godimento dei proprio diritti, la possibilità di accedere a una sanità e un’istruzione per tutti, a non essere discriminati per le proprie idee politiche, per il proprio credo religioso, o per i propri gusti sessuali. Oggi la ‘sicurezza’ è stata militarizzata: muri e barriere di filo spinato – che pensavamo di non vedere più in Europa dopo la caduta del Muro di Berlino – segnano cicatrici in tutta Europa. La gestione sempre ‘emergenziale’ delle migrazioni è diventato un tema di ‘sicurezza’, senza che venga affrontato come un tema ‘sociale’. Le persone sono al ‘sicuro’ quando possono combattere la povertà, la fame, le malattie e i cambiamenti climatici. E più persone sono al sicuro, in tutto il mondo, più il mondo sarà sicuro.

Disclaimer

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I testi di questi vocaboli, che puntano a offrire un contributo a una nuova narrazione sulle migrazioni, sono frutto dell'elaborazione di singole interviste realizzate con alcune delle figure centrali del progetto SnapShotsFromTheBorders:

Stefan Grasgruber-Kerl (Awareness Coordinator. Sudwind, Austria)
Pietro Pinto (Snapshots From The Borders, Project Coordinator)
Paolo Patanè (Snapshots From The Borders, Senior Advocacy Officer)
Marina Sarli (Snapshots From The Borders, Advocacy Coordinator)
Ildiko Simon (Cromo, Hungary)
William Grech (Kopin, Malta)
Sandra Federici (Africa e Mediterraneo, Italia)

Tutte le interviste sono a cura di Carlo De Marco (Snapshots From The Borders, Communication Coordinator)
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