Africa/Europa: due continenti, un futuro

18 GIUGNO 2019

L’assenza di strategie e di competenze rispetto ai contesti migratori influiscono negativamente nel discorso pubblico

“L’importanza dei rapporti tra Africa, Italia in particolare ed Europa in generale, è evidente per la vicinanza geografica, per i problemi che nascono dai conflitti che non vengono controllati, per i mutamenti climatici e i disastri economici. Perché l’Africa può rappresentare un problema, ma può essere anche e innanzitutto una grande opportunità. E noi, che siamo un’organizzazione umanitaria, abbiamo voluto sottolineare con questa iniziativa che parlare di Africa non significa parlare solo di solidarietà, ma anche di interesse – in senso positivo – per l’Italia e per l’Europa in generale. Una crescita equilibrata economica e sociale dell’Africa minimizza le criticità e aumenta le potenzialità. Che sono moltissime.”

Mario Raffaelli, presidente di Amref Health Africa, ha così commentato il convengo Africa/Europa: due continenti, un futuro, organizzato da Amref alla vigilia delle elezioni europee per offrire al dibattito un contributo fondamentale sui contesti di partenza. Tra i relatori, Leila El Houssi, docente di storia del Medio Oriente all’Università di Firenze. In quest’intervista, dopo il voto, il punto di vista su una situazione che non sembra cambiare. I contesti di provenienza sono i grandi assenti nel dibattito pubblico, mentre le migrazioni occupano il centro del discorso. Come è possibile scindere l’analisi di un fattore senza conoscere e studiare l’altro? Questa indifferenza, colpisce in particolar modo Africa e Medio Oriente?

“Si sente la mancanza di un racconto ‘terzo’, che esiste, ma è celato, tra il conflitto e l’orientalismo. Questo riguarda tanto il mondo dell’informazione, quanto quello della politica, senza dimenticare le colpe dell’ambiente accademico. Non so se si possa considerare una caratteristica specifica di alcune zone del mondo”, spiega la professoressa El Houssi. “Da questo punto di vista, è un po’ una caratteristica negativa del nostro contesto l’ignorare le complessità del mondo extra europeo. Basti pensare all’Asia o all’America Latina: non è che se ne parli molto o con maggiore competenza generalizzata. Troppo spesso quando se ne parla si cade negli stereotipi. Di sicuro colpisce particolarmente che si parli poco di un continente come l’Africa, compreso il Nord Africa, o il Medio Oriente, perché oltre a essere il più vicino a noi è strettamente connesso al fenomeno migratorio. Però, come dicevo, il discorso è generale: basti pensare al Bangladesh, una realtà che nessuno conosce, nonostante in Italia viva una numerosa comunità proveniente da quel paese. Rispetto poi, in particolare, al Vicino Oriente, come si definiva un tempo, c’è purtroppo una lunga tradizione orientalista, che affonda le sue radici nella letteratura di viaggio del passato, e che resiste, nonostante ci separi un’ora di volo da certi luoghi. Basta guardare, anche a livello accademico, come si volga molto di più lo sguardo a nord rispetto che a sud, con due eccezioni in Venezia e Napoli. Per molte delle altre, invece, non esiste una tradizione di studio verso l’Africa e il Medio Oriente e neanche la iniziano, nonostante una situazione geopolitica di interesse particolare per l’Italia e – torno a sottolineare – dei percorsi migratori che in maniera evidente affondano le loro radici anche in fatti storici del passato. Non è che le persone si svegliano una mattina e decidono di abbandonare il posto dove sono nati; c’è un’oggettiva situazione preesistente, come lo è stato per le rivolte in Nord Africa e Medio Oriente. Rispetto a questa indifferenza, in altre parti del mondo è diverso. Fin troppo semplice pensare alla Francia e alla sua storia, ma anche recentemente, nella cultura e nella società francese – di fronte ai fatti contemporanei – si è sentita forte l’esigenza di investire nello studio di determinati contesti: cattedre, corsi, formazione. Da noi, invece, tutto tace e rischiamo di vivere in un mondo sempre più chiuso”

Colpisce in particolare l’assenza di analisi o proposte rispetto ai contesti di partenza, sia prima che dopo le elezioni europee. Come si spiega questa mancanza?

“Le migrazioni sono definite questione, ma stiamo parlando di persone, non di una questione. Se ne parla solo in termini di sicurezza. Mai alle strategie per gestire il fenomeno che è eterno e connesso alla natura umana. Qualsiasi strategia di lungo periodo, una visione, è totalmente assente. Si affronta sempre come una perenne emergenza. Questo, tra le altre cose, ci riporta anche a quanto dicevo prima: c’è una totale ignoranza, anche storica, sociologica, antropologica, culturale dei mondi dai quali provengono queste persone. La politica alimenta la tensione e la paura, in modo trasversale, perché non riguarda solo un partito politico: anche altre realtà teoricamente più solidali hanno comunque portato avanti delle politiche legate solo al concetto di sicurezza e di emergenza e mai a una visione strategica di lungo periodo. Nei programmi politici o negli interventi pubblici nessuno indica con chiarezza una progettualità per costruire un argine alla paura e alle situazioni che, come Lampedusa, la Spagna meridionale e la Grecia, pagano un peso enorme che – per forza – comporta anche dei conflitti. Una classe politica che non riesce ad avere una strategia fa riflettere, perché è necessario lavorarci, dalle politiche di vicinato ai gruppi di lavoro che indaghino davvero su questi paesi e queste realtà. Per costruire qualcosa di diverso. Io sono una storica, ricordo benissimo che dopo il processo di decolonizzazione ci furono dei tentativi progettuali euro-africani, che però poi si sono fermati, come il processo di Barcellona. D’altronde tutto torna: abbiamo una classe politica che conosce poco e in modo superficiale questi contesti; questo rende più complesso elaborare strategie. Il discorso torna anche al ruolo della scuola e dell’università, che dovrebbero formare. Quanto si parla di Africa e Medio Oriente nei libri di scuola? Se non c’è la singola sensibilità del docente, manca un approccio culturale concreto e competente. A lezione, all’università, quindi con studenti adulti, capita di incontrare persone che non sapevano collocare il Senegal o la Somalia su una mappa. Non è colpa loro, non è solo colpa del docente: tutta una visione è eurocentrica, ma le connessioni globali non sono più procrastinabili anche come oggetto di studio, perché non riguarda assolutamente solo alcuni addetti ai lavori, ma tutti noi.”

by Christian Elia