Un altro inverno in Bosnia-Erzegovina

19 GENNAIO 2021

La crisi dei migranti a Lipa è solo una parte del problema

Tre camion carichi di aiuti umanitari sono arrivati ieri in Bosnia-Erzegovina, dove oltre 3mila migranti sono intrappolati in mezzo alla neve. Vestiti caldi, coperte e acqua potabile, portati dalla Croce Rossa italiana, saranno distribuiti ai migranti che si trovano in condizioni terribili vicino al confine croato da quando il campo di Lipa è stato distrutto in un incendio il mese scorso, lasciando circa 1.400 persone senza riparo. 

Un gesto di umanità per una situazione, però, che resta inaccettabile nell’Europa del 2021. Una situazione che, ben prima che arrivasse il gelo tremendo dell’inverno nei Balcani, era stata denunciata da attivisti e organizzazioni della società civile. 

In una bella intervista pubblicata in questi giorni da RadioFreeEurope, Nidžara Ahmetašević da Sarajevo e Dragan Bursać da Banja Luka, due giornalisti della Bosnia-Erzegovina, si racconta come questa situazione si trascina ormai da anni.

“Nel 2018 ho iniziato a scrivere quello che stava accadendo in Bosnia-Erzegovina e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), che gestisce i campi di accoglienza presenti nel paese – che sono otto – in un certo senso mi ha impedito di entrare nei campi. Io ho comunque continuato a recarmi nei campi senza la loro autorizzazione, e spesso non se ne sono nemmeno resi conto. Da quello che ho visto ho capito chiaramente perché l’OIM non vuole lasciare entrare nei campi non solo me, ma tante altre persone. Le condizioni di vita nei campi sono estremamente degradanti e inumane. Non c’è acqua calda, il cibo è spesso inadeguato. Tutti ricevono lo stesso pasto, sia le persone sane che i malati e i bambini, e spesso molte persone lamentano prurito e altri problemi della pelle causati da scarse condizioni igieniche. Ma il più grande problema, che gli attivisti in Bosnia Erzegovina denunciano ormai da tre anni, sono le violenze commesse dalle guardie di sicurezza private nei confronti delle persone ospitate nei campi”, racconta Nidžara. 

“Per i migranti la Bosnia Erzegovina è solo un punto di transito nel loro viaggio verso l’Unione europea. Queste persone vengono aiutate dai cittadini della Bosnia-Erzegovina. È la popolazione locale, già schiacciata da mille problemi, ad aiutare i migranti, in ogni comune, in ogni luogo. I comuni e i cantoni aiutano per quanto possibile. Non si possono scaricare tutte le colpe per la situazione dei migranti sui comuni che, per la maggior parte, sono poveri. Sta di fatto che le due entità della Bosnia Erzegovina (la federazione croato-musulmana e la repubblica serba ndr), ma anche lo stato, passano la patata bollente dei migranti all’OIM, poi quest’ultima la rimanda indietro al mittente. Si tratta di, per così dire, una irresponsabilità congiunta della Bosnia Erzegovina e di alcune istituzioni estere, e a pagarne le spese sono i migranti, ma anche la popolazione locale che comunque sta cercando in tutti i modi di aiutare quelle povere persone. Non è che le istituzioni bosniaco-erzegovesi non vogliano accogliere i migranti, semplicemente non sono in grado di far fronte al problema, e l’UE avverte: cavatevela come potete, ma non mandateli da noi.”

Le immagini che arrivano dalla Bosnia-Erzegovina sono sconvolgenti e l’Ue ha dichiarato – pressata da stampa e società civile – che Sarajevo deve agire. Ma in questo atteggiamento resta una profonda ipocrisia, perché è la situazione che la stessa Ue ha creato ad aver generato un collo di bottiglia che semplicemente un paese pieno di problemi come la Bosnia-Erzegovina non può gestire.

“Assistiamo al frutto delle politiche di esternalizzazione delle frontiere. In questo caso con l’accordo con la Turchia, dove l’Europa ha confinato oltre 4 milioni di persone. Ma è un fallimento che si vede anche altrove, in Libia, come in Ciad. La politica della concessione dei visti e delle collaborazioni commerciali che l’Ue concede a paesi terzi per fermare i flussi migratori producono le situazioni che vediamo in Bosnia-Erzegovina e altrove – spiega l’avvocata Francesca Napoli,  specializzata nel diritto d’asilo, consulente legale del Centro Astalli – ma che non vengono considerati errori, come dimostra il nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo che rivendica come buoni risultati quelli ottenuti in Grecia e Croazia, che respingono illegalmente le persone. Non è un caso, ma un sistema. Non si possono considerare le guerre dalle quali queste persone fuggono come eventi isolati, ma bisogna considerare i contesti di violenza e povertà che i conflitti comportano, anche nel lungo periodo, che porta alla violazione dei diritti umani, sociali, economici e politici di queste persone. Un sistema che contribuisce, senza risolvere la situazione, al business dei trafficanti di esseri umani, perché le persone continueranno a fuggire e a muoversi. Perché resta un processo naturale per compensare le diseguaglianze economiche che sono sempre più feroci.”

Un sistema del quale sono tutti complici. L’Italia, ad esempio. Sono 1240 i migranti respinti dall’Italia nel 2020, il 420% in più del 2019, rimandati in Slovenia senza che possano chiedere la protezione internazionale e senza un adeguato processo di identificazione, come una bella inchiesta della rivista Altreconomia ha raccontato.

“Sono dati allarmanti che la ministra degli Interni italiana Lamorgese non ha neanche nascosto, ma ha riferito in Parlamento come niente fosse. Per fortuna c’è attenzione mediatica, che è importante per tenere viva l’attenzione su una serie di violazioni che toccano il senso del diritto, quello che è un cardine dell’ordinamento europeo, che non permette di respingere le persone verso stati dove non sono garantiti i loro diritti e dall’Italia, passando per la Slovenia, queste persone vengono respnte in Bosnia-Erzegovina dove la situazione è nota”, spiega l’avvocata Napoli.

La situazione, lungo la cosiddetta Balkan Route, è drammatica da anni e non solo in inverno. Report di Human Rights Watch e di Amnesty International lo denunciano da anni, così come il lavoro quotidiano di reti di attivisti come Border Monitoring Violece Network e RiVolti ai Balcani fanno da anni.

Ogni volta, di fronte alla crisi di turno, come quella di febbraio 2020 al confine tra la Grecia e la Turchia, o quando arriva il freddo, o quando bruciano i campi di Moria e di Lipa, i media tornano a parlare di quella che è una situazione grave da anni. I respingimenti illegali dell’Italia e della Grecia, le violenze della polizia di frontiera croata, le barriere che sono nate in questi anni in Ungheria, Serbia, Slovenia, Grecia, Bulgaria.

La situazione va affrontata alla radice, non come nel 2016, quando l’accordo con tra Ue e Turchia aveva fatto pensare a un problema risolto. Con l’applicazione delle misure alternative, come i corridoi umanitari o la gestione dei flussi elaborata con il Global Compact. Altrimenti alla prossima crisi e al prossimo inverno torneremo a raccontare lo stesso incubo di sempre per migliaia di persone.

di Christian Elia